Le regole del gioco non sono quelle che pensi, ma quelle che scrivi
È vero che come artisti abbiamo imparato a fare un po’ tutto. Siamo creatori, siamo realizzatori, siamo organizzatori. Nel tempo però abbiamo dovuto apprendere ad essere anche imprenditori, comunicatori, grafici, media manager, videomaker, promotori, progettisti, formatori, amministratori, commercialisti e avvocati.
La lista sarebbe anche più lunga, ma è proprio di avvocati che si deve parlare. Salvo scelte estreme, la nostra professione si svolge nella cornice del diritto. Il diritto è una materia che permea ogni azione che ci riguarda. Nemmeno la creazione artistica sfugge, ad un certo punto, all’incontro con il diritto.
Ho pensato ingenuamente che, dopo la batosta della pandemia, la ripresa sarebbe iniziata con una nuova consapevolezza del proprio essere soggetto (ma anche oggetto) di diritti. Ho creduto che, dopo aver visto i nostri diritti di cittadini e lavoratori venir messi in coda alle priorità, nessuno di noi avrebbe più mollato un centimetro alla necessità di tutelare se stessi e i propri collaboratori imparando un po’ meglio le regole del gioco. Non è stato così. Le cattive pratiche sono dure a morire.
Una delle regole più importanti del gioco si chiama contratto. Sembrerà strano, ma non viene dopo la creazione, dopo la promozione e dopo l’esecuzione. Il contratto viene con noi sempre e ovunque transitiamo. È un elemento del nostro essere soggetti di diritto in relazione continua con l’altro e ci permette di tutelare la dignità del nostro lavoro. Ma quanto nei sappiamo dei nostri contratti?
La contrattualistica è una brutta bestia. Poco poetica, spesso brutale, talvolta ingannevole. Occorre conoscerne di significati, per non firmarne senza accorgersi che stiamo lasciando sul campo un pezzo di prerogative che ci spettano. Le cattive pratiche tuttavia restano nella misura in cui questo territorio resta un luogo dove faccio fare ad altri, dove non leggo o dove, ancora oggi, se non c’è “facciamo senza, va bene uguale“.
Esistono lestofanti conclamati del settore. La blacklist si fa a proprie spese, se sfortunati, o attraverso le esperienze altrui. Succede però che talvolta i nuovi impostori non lo sono davvero. O non lo vorrebbero essere. Lo diventano per necessità, perché nella catena dei contributi e delle commesse qualcosa o qualcuno a sua volta fa tardi, ha sbagliato qualcosa o viene a sua volta ingannato.
Per un artista la circuitazione di un’opera è elemento che vale tanto quanto la creazione. Per questo va protetta con le regole giuste. Se un’opera gira e guadagna può crescere e può generare altre opere. Un preventivo scritto bene o un contratto corrispondente alla natura della propria opera tutela molto più del credito di una data. Un buon contratto è un vestito su misura che se calza bene tutto ne giova. Anche lo spettacolo.
Un artista non deve con questo diventare avvocato. Un amico più esperto, un’associazione di settore o una buona cooperativa possono fare molto. Eppure conoscere i contenuti e sapere che la firma di un committente su un buon contratto (non solo la cifra che si scrive) è uno strumento che garantisce la dignità del proprio lavoro e che permette, mal che vada, di recuperare quel che è si è speso, dovrebbe essere un faro da non dimenticare mai. Importante tanto quanto un allenamento o le prove dello spettacolo.
Un buon contratto è stato spesso per me il biglietto da visita di ogni contrattazione. Se era scritto bene nessun committente era invogliato ad intavolare trattative al ribasso. Se succedeva qualcosa dopo ero sempre garantito. Ancora oggi tanti artisti considerano il contratto una noia. Imparare a fare questo scarto si chiama professionalizzazione e, quando serve, fa la differenza. Come quando si incappa, senza saperlo e troppo tardi, in un famigerato e seriale impostore in blacklist.